Precious

di Lee Daniels, Usa 2009

Clarissa Jones, soprannominata ( direi quasi beffardamente!) ‘Precious’ è un’adolescente di diciassette anni, nata e cresciuta ad Harlem, incapace di leggere e scrivere, ma con ottimi voti in matematica, costretta in un corpo obeso e con un secondo figlio in arrivo, frutto delle violenze sessuali del padre.
Precious vive ‘fisicamente’ in un ambiente osceno e brutale sottoposta a ogni tipologia di violenza fisica e psicologica all’interno della sua famiglia e nel contesto sociale in cui vive. Ma Precious ha una marcia in più rispetto ai suoi coetanei: è capace di sognare una vita migliore per se stessa e per i suoi due bambini. Decide, quindi, di iscriversi a una “scuola alternativa” dove finalmente impara, grazie al sostegno della signorina Rain, a leggere e a scrivere e a prendere coscienza che un’alternativa effettivamente esiste, anche se la strada appare tortuosa e tutta in salita.
“Precious”, seconda opera di Lee Daniels, ispirato a un romanzo di Sapphire ha ottenuto numerosi premi: presentato al Sundance Film Festival, dove si è aggiudicato il Premio del Pubblico e il Gran Premio della GIuria, viene presentato a Cannes nella sezione Un certain Regard e ottiene sei nomination agli Oscar 2010 vincendo quelle per la migliore attrice non protagonista ( Mo’nique - la mamma di Precious) e quella per la migliore sceneggiatura non originale.
E’ una pellicola straordinaria che riesce a raccontare quasi dolcemente temi scabrosi e scottanti come quelli della violenza sessuale familiare, della violenza psicologica e dell’indifferenza – o forse impotenza – istituzionale americana nei confronti di luoghi particolari e isolati come Harlem. Per Precious non si prova pietà o compassione ma, durante la pellicola, si è con lei a lottare: la si incoraggia e si cerca, come fa lei, di non perdere mai la speranza neanche di fronte alle situazioni irreparabili. Il sogno di Precious di un mondo migliore diventa un tutt’uno con lo spettatore che non può far altro che stare al fianco della ragazza e ammettere che c’è sempre, seppure minuscolo, un lato positivo.
Un inno alla speranza che trova, a mio parere, inutili le ridicole accuse di razzismo nei confronti del suo regista e della pellicola stessa.

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