Intervista a MariaGiovanna Luini, di Gian Paolo Grattarola

Difficile riuscire a catturare Mariagiovanna, costantemente risucchiata nel vortice di conferenze, interviste e congressi medici, ma anche – e ultimamente soprattutto – di convegni letterari, impegni editoriali e presentazioni di libri. Dopo averla a lungo braccata finalmente l’opportunità di poter conversare con leu in tutta tranquillità in un locale adiacente ad una libreria dove ha appena terminato di presentare al pubblico la sua ultima fatica letteraria. Appena il tempo di ordinare da bere e lei è già pronta a concedersi alla mie domande con la sua consueta affabilità. Nonostante abbia già speso molte parole, le sue risposte sono un torrente in piena.

Dopo aver raggiunto ambiti riconoscimenti e una posizione consolidata in campo medico, in questi ultimi anni hai dedicato larga parte del tuo tempo alla scrittura. Come nasce questa seconda anima e come si sviluppa nel tempo?
La seconda anima esiste da sempre, credo sia la più vera. L’unica, in realtà, se vogliamo credere all’esistenza dell’anima e alla sua ricchezza di elementi tra loro simili oppure divergenti. Ho imparato a leggere e scrivere da sola, a tre anni: sfogliavo libri e riviste in casa oppure nella sala d’aspetto dell’ambulatorio di mio padre (anche lui medico), chiedevo in continuazione che mi leggessero le insegne dei negozi. Memorizzavo le lettere (ho molta memoria visiva) e i suoni, e li mettevo insieme.
Ero una bambina silenziosa, timida: facevo qualche domanda poi ci ragionavo su, convinta che sarei arrivata da sola a scoprire i segreti che i grandi già conoscevano. Tentavo di associare le parole alle immagini, e ci fu un momento in cui, quasi all’improvviso, capii che un’insegna significava “farmacia”.
Quel momento è indelebile nella memoria, si fece luce e seppi di essere arrivata finalmente a comprendere come funzionassero le parole. Fu bellissimo: le lettere dell’alfabeto diventarono il senso, la musica, un gioco di semplicissima composizione che mi offriva la possibilità di formare le parole.
Ho scritto centinaia di lettere, bigliettini, diari, e verso i sei-sette anni ho iniziato a buttare giù racconti, fiabe e qualche poesia (per fortuna, con le poesie mi sono fermata: non credo fossero particolarmente brillanti). Scrivevo su fogli a righe e rilegavo con fili di lana rossa, oppure riempivo quaderni e agende.
Ho sempre detto le cose più importanti con la scrittura, che è la vera costante della mia vita insieme alla lettura, che è cresciuta con me in modo vorace e anarchico: mai avuta una progressione da letteratura per bambini a letteratura per adolescenti e adulti, prendevo dalla libreria e leggevo. I promessi sposi in edizione integrale a sei anni, e romanzi di ogni genere: dai classici ai contemporanei, tutto. Negli anni del liceo classico (il liceo “Alessandro Manzoni” di Lecco) il dubbio sulla successiva università fu: medicina o lettere, per poi diventare giornalista? Scelsi medicina, avevo il sogno di lavorare con Umberto Veronesi e volevo assomigliare a mio padre, il migliore medico che abbia conosciuto; eppure, la scrittura mi inseguì anche da medico perché, ovviamente, continuai a scrivere racconti e diari e considerazioni fitte sui taccuini che porto sempre dietro, ma trovai il modo di scrivere anche di medicina e scienza. Incontrai davvero Umberto Veronesi, andai davvero a lavorare con lui (lavoro tuttora con lui all’Istituto Europeo di Oncologia) e iniziai a scrivere lavori scientifici e divulgativi, capitoli di libri, pezzi per i giornali, forum internet e interventi a congressi. Insomma, la scrittura si infila in tutto, anche quando apparentemente prendo strade diversissime.

Nel 2005 ho preso la decisione, per me rivoluzionaria, di farmi leggere, e ho aperto il blog “MariaGiovanna e poi”. E’ da lì che è iniziata la seconda parte della mia vita: la passione che ci mettevo, la consapevolezza di misurarmi con l’opinione della gente, il numero alto di lettori e commenti che ricevevo mi hanno convinta a “fare sul serio”. E mi hanno portato i contatti preziosissimi che sono alla base della pubblicazione dei miei libri: primo tra tutti, Gianluca Ferrara, il mio editore di Creativa.
Quando ho conosciuto Gianluca, grazie a Francesca Mazzucato, avevo già alcuni manoscritti che sentivo quasi pronti: in particolare, feci leggere Una storia ai delfini, che in meno di due ore ebbe la proposta di pubblicazione. Dal 2005 ho pubblicato Una storia ai delfini e Le parole del buio con Creativa, racconti su antologie (voglio ricordare “Il chiama-angeli” su Rac-corti, Giulio Perrone) e due libri di fiabe scritti pensando ai pazienti oncologici del mio Istituto che, nelle lunghe ore di ricovero o di chemioterapia, trovano sollievo nei libri e, pare, apprezzano particolarmente le storie che li portano lontano dalla malattia, dalla paura, dalla tristezza. Ho scritto anche recensioni per Mangialibri, sono diventata responsabile della sezione racconti della rivista Historica e consulente della casa di produzione cinematografica TaoDue Novafilms per fiction a carattere medico. Adesso, come sai, è uscito con le Edizioni Historica Diario di melassa.

Quante copie sono state vendute di Una storia ai delfini e Le parole del buio, i romanzi che hanno fatto di te una scrittrice ormai affermata?
Una storia ai delfini ha venduto più di tremila copie ed è in corso di traduzione in Spagna, Le parole del buio circa duemila copie. Ne sono felicissima, ma non ho voglia di entrare nella nevrosi da vendita; spero sempre che i miei libri vivano, diano qualcosa ai lettori, ma non ho intenzione di trascorrere giorni e mesi con l’ansia di ottenere grandi numeri. Non è questo il senso della mia scrittura.

Nei tuoi libri c’è una costante attenzione alle forme del dolore e della sofferenza, desunte non solo dalla tua attività professionale ma anche dalla tua vicenda umana. Se dovessi farlo, come descriveresti la tua scrittura?
In costante evoluzione. Altro non posso dirti. Descrivere la propria scrittura non solo è impossibile, ma è anche stupido. Sono gli altri a definirmi, se vogliono, nel bene e nel male. Io con me stessa non sono né potrei essere obiettiva. E’ vero, descrivo molto il dolore, e anche l’amore (anche se l’amore è sempre tormentatissimo, quindi intriso di dolore); la professione oncologica influenza molto, ma sì, come hai detto tu, anche la mia vita mi ha, diciamo così, aiutata a conoscere il dolore. Pazienza, vale per tutti, anche per me. Poi ho scoperto l’importanza fondamentale dello studio, dell’autocritica, della tecnica. Altro che scrittura di pancia! Per scrivere e misurarsi con i lettori bisogna leggere moltissimo, scrivere ogni giorno, essere attenti al ritmo, alla fluidità della trama, alla tecnica e alle critiche. Bisogna sapere ciò che si vuole, dove si va e dove si spera di arrivare. Imparare, insomma. E disimparare i difetti. Sto disimparando la fretta, e per me è straordinario perché faccio sempre tutto a velocità doppia rispetto al normale. Disimparo l’uso eccessivo dei pronomi personali e le ripetizioni, imparo invece la costruzione dei dialoghi e la descrizione di persone e ambienti. La mia scrittura è in evoluzione perché scopro che si può davvero migliorare, affinare, fare crescere. Sono testarda, è una delle caratteristiche più evidenti per chi mi conosce: testardamente, vado avanti a scrivere perché è diventata anche la mia professione, non parlo più solo di passione e mi arrabbio a morte se qualcuno la definisce un hobby. Non lo è. La scrittura è un amante geloso e possessivo, assoluto.

Perché a questo punto della tua vita hai deciso di attraversare il ricordo di ciò che è stato? Ansia di superamento, desiderio di riscatto o necessità organica di raccontarsi?
Ho scritto Diario di melassa circa tre anni fa, mi sono chiusa in casa e l’ho scritto. Forse avevo bisogno di farlo, di mettere una distanza tra me e gli eventi. Credevo che non avrei mai fatto leggere questa storia, poi ho deciso, nel 2009, di pubblicarlo con Historica: forse la distanza è arrivata davvero e la pubblicazione ne è segno tangibile, e mi auguro che tante altre donne riescano a fare lo stesso, cioè rielaborare traumi dell’infanzia e dell’adolescenza in modo che non frenino più i loro passi, non condizionino negativamente il resto della vita.

In Diario di melassa si realizza come un dialogo instancabile tra due poli contrapposti: l’indignazione e la mitezza, la confessione e la speranza, l’elaborazione del dolore e l’aspirazione alla vita. Ce ne puoi parlare?
Difficile parlarne. Sono i tratti distintivi di Giovanna (o MariaGiovanna, se preferisci). Credo valga per tutti, comunque mi sento donna di contrasto continuo. Passionalità e timidezza, paura folle dell’amore e ricerca continua, esposizione sociale e ritrosia, rabbia furiosa e mitezza, sguardo rivolto indietro oppure avanti. Giovanna si accende e spegne, ride e piange, assume atteggiamenti spavaldi per coprire i buchi nerissimi dell’anima, ammutolisce e scrive forsennatamente oppure parla in pubblico senza fermarsi. “Diario di melassa” mi denuda totalmente, ne sono stata consapevole quando l’ho riletto per mandarlo a Francesco Giubilei.

Che tipo di reazioni ti attendi dall’uscita di questo libro? E quali riscontri hai avuto modo di cogliere nel corso delle prime presentazioni?
Questa mattina ho ricevuto la telefonata di Cesare, il mio padrino, lo psichiatra che ho menzionato anche nel libro: sono rimasta colpita dal suo dolore, dalla confusione generata dalla lettura, dalla difficoltà che ha descritto nel leggere tutto, proprio tutto. Soffriva, ha aspettato settimane prima di chiamarmi e non riusciva a dirmi ciò che pensava del libro. Mi è dispiaciuto sentirlo così. Amo molto Cesare, è per me una figura familiare e fondamentale: ha espresso lo sconcerto di chi mi ama, come i miei genitori, i fratelli, mia cugina Roberta (che nel libro è Margherita), gli zii. L’impatto di “Diario di melassa” su chi mi ama è stato profondo e a volte difficilissimo da affrontare. Lo immaginavo, così come immagino che ci saranno persone pronte a dire che ho usato i miei drammi per pubblicare un libro, oppure che ho sbagliato a mostrarmi tanto. So bene che alcuni non capiranno il dolore che sta nelle frasi, nella trama: pazienza, vado avanti con la speranza incrollabile che le donne che, come me, conoscono la prigione soffocante e umiliante del disturbo alimentare sentano la mia vicinanza a loro. Sentano che si può vincere, soprattutto. Si può smettere di essere vittime, a patto che si decida di guardare avanti e non indietro. I lettori che finora mi hanno dato il loro parere dicono che lo stile è evoluto, migliore rispetto a quello dei due libri precedenti. Alcuni commentano la trama, altri sorvolano, altri ancora mi cercano con ogni mezzo per dirmi che capiscono, si sono identificati, hanno sofferto o soffrono tuttora per un disturbo alimentare che invade completamente la loro esistenza. Oppure hanno subito molestie o violenze, e si sentono compresi. Alle presentazioni gli argomenti del libro scatenano discussioni profonde, a volte drammatiche. Era inevitabile. Ricevo domande personali, accetto di rispondere perché è diritto di chi legge capire bene il senso della storia, però ogni volta sembra un viaggio nel tormento e nella rinascita che cambia qualcosa di me e, forse, di chi è presente agli incontri. Vedremo, il libro ha ancora tanta strada davanti, però mi sento felice perché ho avuto commenti positivi sullo stile anche da persone che in passato hanno criticato Una storia ai delfini e Le parole del buio: ho ricevuto molti commenti positivi sull’evoluzione della scrittura, ora aspetto le critiche perché è giusto e naturale che ci siano e sono destinate, se sincere, a darmi strumenti validissimi per migliorare. Le critiche fanno male ma aiutano, se si capisce che nascono da un giudizio sincero e motivato; quando invece sono frutto dell’invidia e magari chi le muove non ha neanche letto i tuoi libri beh, chi se ne frega (lo stesso vale per le lodi: se sono buttate lì senza la lettura del libro non aggiungono proprio niente).

Al di là delle innegabili capacità di scrittura, ciò che più colpisce – qui come in ogni tuo scritto  – è la capacità di destreggiarti con i paradossi e le contraddizioni dei sentimenti conservando inalterato il tuo talento di vivere. Qual è il tuo segreto?
Il confronto continuo con le persone malate di tumore. La vista quotidiana di drammi indicibili e veri, concreti, che mi ancorano a terra e mi impongono scelte serissime. Imparo dalle donne che seguo come senologa, imparo a sorridere e a usare l’ironia ma anche a non banalizzare il dolore, a trattarlo con rispetto e, soprattutto, a riconoscere le vere priorità. La vita è piena di sentimenti contrastanti, delusioni, dolori, abbandoni, e il dolore rischia ogni volta di ucciderci: apriamo gli occhi, guardiamo le persone che rischiano davvero di perderla, la vita, e vorrebbero invece continuare a stare con i loro cari, vorrebbero lavorare, viaggiare, camminare, ridere, piangere senza il peso opprimente della malattia! Sono sicura di parlare anche per i miei colleghi dell’Istituto Europeo di Oncologia, per tutti coloro che si confrontano, a vario titolo, con la malattia e la morte: non puoi restare indifferente, dentro di te qualcosa cambia per forza. In ogni abisso di dolore esiste una luce piccola ma vivace, bisogna imporsi di vederla.

Al di là dei puntuali riscontri autobiografici presenti in ognuna delle protagoniste dei tuoi ultimi tre libri, qual è quella a cui ti senti più vicina per sentimenti, angosce e passioni?
Sono fasi della vita rappresentate diversamente. Marcella di Diario di melassa parla con la mia voce, è ovvio che rappresenti me stessa nel periodo in cui l’ho scritto. Silvia di Le parole del buio, però, dipinge meglio la mia complessità, e le contraddizioni; il narcisismo, anche, che è di ogni scrittore e anche mio. Silvia è MariaGiovanna in moltissimi aspetti: salta dalla depressione alla battuta impudica, dalla chiusura totale alla passionalità acritica, dall’amore disperato al viaggio avventuroso, dalla razionalità brutale all’illusione.

Sono gli scrittori a inseguire le storie, oppure le storie a cercare chi ha la capacità per metterle  su carta?
Tutto è già stato scritto. Le storie esistono, ma possono essere riviste e raccontate di nuovo. Sono lì, basta lasciarsi possedere e capirle, leggerle come vogliamo. E saperle interpretare, ma questo è un altro problema.

Tu che lavori nel difficile ambito dell’editoria contemporanea, puoi dirci qualcosa circa la realtà delle case editrici minori, la loro capacità di lanciare giovani talenti e scrittori non ancora conosciuti?
Si pubblica troppo, a ogni livello. Eppure, molti scrittori validissimi con manoscritti preziosi che potrebbero davvero aggiungere qualcosa di bello alla letteratura restano senza editore. Per questi scrittori la speranza più concreta è quella dell’editoria indipendente, non per ragioni di minori dimensioni ma per l’intraprendenza degli editori. Gli editori indipendenti mi hanno come fortissima sostenitrice, e lo sanno. Hanno spesso più inventiva, più iniziativa, osano molto molto di più quando trovano l’autore che secondo loro merita. Investono soldi e tempo in modo inarrestabile, a volte rischiando molto, per dare ai lettori libri di buona qualità. Il più delle volte non pubblicano il nome, ma la storia: non vogliono la faccia nota da usare per fare soldi, vogliono il manoscritto valido, l’autore che sa scrivere. Chiedono, è ovvio, che l’autore sia disposto a fare tanto per promuovere il libro, cosa che non è sempre chiarissima a chi scrive: conosco scrittori con uno stile assoluto, perfetto, che dopo la pubblicazione con un editore indipendente si sono seduti nell’attesa serafica del successo planetario, senza sforzarsi di trovare librerie per le presentazioni, recensioni, visibilità. Non li capisco. Se credi nel tuo libro provi a muoverti e vedi come va. Comunque, l’editoria indipendente scopre talenti che spesso arrivano, grazie al lancio delle prime opere, agli editori più grandi (in senso dimensionale). Comunque, voglio aggiungere qualcosa sulle case editrici “non indipendenti”. Detesto chi fa campanilismo cretino a priori pro editori indipendenti e contro le case editrici più grandi, soprattutto tra gli scrittori: dai, siamo seri, chi di noi non sogna di vedersi pubblicato da un editore con grande distribuzione e molti soldi da investire? A volte certi dibattiti sembrano la ripetizione eterna de “La volpe e l’uva”. Mi verrebbe la voglia di riunire tanti scrittori di case editrici indipendenti che sputano sugli editori più grandi e dire: “Qui c’è un contratto con XXX, basta solo firmare. Forza, chi lo rifiuta?”. Mi metto nel numero, ovviamente: chi scrive vorrebbe vedere il proprio libro in tante mani, davanti a migliaia di occhi. Questo non significa prediligere un editore piuttosto che un altro, significa credere in sé stessi e nella propria scrittura. L’editoria ha regole non sempre condivisibili, ma di fatto è l’unica strada per pubblicare i propri libri. Indipendenti o meno, le case editrici serie offrono l’opportunità ai lettori, come me, di avere ogni anno un’amplissima scelta, e agli scrittori, come me, di tentare di arrivare al pubblico.

Che tipo di rapporto hai con i tuoi lettori?

Un libro è morto se non ha lettori. Amo incontrare i miei lettori, ne ho bisogno. Mi danno la reale visione dei libri che scrivo, anche quando criticano in modo veemente.

Puoi anticiparci qualcosa del tuo prossimo romanzo a cui stai alacremente lavorando?
Scrivo tantissimo. Ho qualche manoscritto completo da rivedere, e un romanzo molto lungo in seconda stesura: in questo romanzo i protagonisti sono un uomo politico con molti segreti e una scrittrice che vive in un faro su un’isola piccolissima. Il resto al futuro.

Fonte: Mangialibri

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